on the road #3, ritroviamo l'essenza in gold coast.
- Renato | Michela
- 22 apr 2020
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 5 gen 2021
Era ormai una settimana che eravamo partiti, il tempo sembrava essere volato, trascinato via dal vento fuori dal finestrino, che ad ogni chilometro si abbassava sempre di più.
Il tropico del capricorno non era più così lontano, ora che avevamo scavalcato la linea di confine ed eravamo balzati in Queensland, the Sunshine State. In lontananza palazzoni bianchi stile Miami si ingrandivano col nostro avvicinarci, rivelando la loro grandezza. Gold Coast si preparava a conquistarci.

Impostammo il navigatore verso il lungomare e ci addentrammo nel ventre ordinato e marittimo di questa metropoli subtropicale. Larghi marciapiedi, che pullulavano di negozi da surfisti e giovani dai capelli lunghi che sfrecciavano sui longboard, segnavano la nostra via e ci conducevano verso l’immensa spiaggia bianca, che disegna il perimetro esterno di tutta la città, come una linea retta che si tuffa nell’oceano, tanto blu, quanto immenso.
Eravamo a Sufers Paradise, estasiati e allo stesso tempo stupiti; non pensavamo di trovarci così tanto a nostro agio in Gold Coast, avremmo scommesso trovarci in quella situazione a Byron Bay, mentre adesso ci stavamo risvegliando in un sogno nella Rimini australiana, come alcuni la chiamano, forse sminuendola un po’.
Così dopo una veloce esplorazione, ci rimettemmo al volante per trovare un posto dove fermarci per la notte, lasciandoci alle spalle i palazzoni e le onde; trovammo dei parcheggi liberi che si affacciavano sulla baia interna, che si snoda come una laguna a pochi metri dalla spiaggia.
Il Sole stava morendo e come di consueto dipingeva della magica luce del tramonto il paesaggio. Nel giro di poche svolte Gold Coast aveva cambiato volto, da una parte altissime costruzioni, degne di una metropoli, che si opponevano linearmente e monumentalmente alle grandi onde del Pacifico, portando in grembo la frenesia litorale, con il suo famoso mercato e le masse che passeggiano o bighellonano organizzando feste o comunque donando vivacità all’atmosfera; dall’altra, dove eravamo noi ora, la calma lacustre delle acque interne, che si sgroviglia in larghe curve fluviali serpeggianti, stile Florida, disseminate di moli privati, che qui hanno la stessa rilevanza dei vialetti d’ingresso, nella la zona residenziale della città, la quale si sviluppa sotto forma di basse villette in stile moderno, con vetrate e barche ormeggiate a pochi passi; lì le tranquille vite familiari, che si scorgevano come piccole sagome, delineante dalle luci domestiche, piano piano si accendevano con l’arrivo dell’ora di cena.
Ci mettemmo comodi, a guardare la notte prendere il sopravvento e placidamente una strana sensazione si impossessava dei nostri sguardi. Una tipica nostalgia di quando si è in viaggio, lontani da quella quiete del focolare e si intravede dalle finestre la normalità del quotidiano. La pacifica ciclicità del tornare a casa la sera, dopo una lunga giornata, per lasciarsi proteggere dall’accoglienza della propria tana, che, con la sola chiusura di una porta, divide il mondo del fuori, con quello della sacra intimità; ci si sente un po’ invidiosi, non perché si abbia un qualche senso di inferiorità, infondo ciò che stavamo facendo era di gran lunga più interessante dello starsene tranquilli in casa la sera, ma è un qualcosa che comunque manca, quella sensazione di essere al sicuro.
Decidemmo che ci saremmo fermati lì, nonostante un cartello che indicava il divieto di campeggiare, ma una applicazione che avevamo scaricato ci aveva indicato in quel posto una zona libera dove poter stare tranquilli, per convenienza ci lasciammo convincere, mangiammo qualcosa e ci mettemmo comodi a dormire, felici di trovarci in quella bella città che il giorno dopo avremmo esplorato.
Alle 4 del mattino fui svegliato da Michela, qualcuno stava battendo sul portellone del Van e delle torce puntavano dai finestrini anteriori, era la polizia. Eravamo stati colti in fragrante.
Riuscimmo in qualche modo a convincerli che non sapevamo del divieto di dormire in quel parcheggio e che comunque l’applicazione ci aveva ingannato; facendo i finti tonti, in perfetto stile italiano, tentando di divincolarci, giustificandoci goffamente e fingendo di pensare che il cartello si riferisse soltanto al campeggiare in tenda; ce la cavammo soltanto con una nota di richiamo, ma se fosse ricapitato, avremmo dovuto pagare 600 dollari a testa di multa, in più ci consigliarono di non fidarci ciecamente dell’applicazione; ringraziammo quegli agenti insolitamente gentili, che ci consentirono di tornare a dormire, a patto che, il giorno dopo, ci fossimo trovati un camping dove pernottare. Finimmo la nostra dormita consapevoli di averla rischiata grossa.
All’indomani ci spostammo verso Burleigh Heads, nella parte sud della città, dove avevamo trovato un campeggio con un buon rapporto qualità-prezzo. Facemmo conoscenza con Kevin, il nostro vicino di piazzola, un simpatico anziano di Sydney con una gran bella roulotte, che ci prese in simpatia e ci rivelò di aver partecipato alla costruzione del Sydney Opera House negli anni ‘70 e poi verso il tardo pomeriggio uscimmo a fare un giro di ricognizione.
La caratteristica principale di questa zona, decentrata rispetto alla città, è di essere arroccata su un promontorio, che parte da un bel giardino botanico e scende a picco sul mare, allargandosi su un meraviglioso prato; qui ogni sera decine di persone si ritrovano a godersi dall’ alto lo spettacolo dei surfisti che cavalcano le onde, mentre sullo sfondo, l’intero skyline della grande città, fa da cornice ad uno dei tramonti più suggestivi a cui avessimo mai assistito.
Facemmo fare due voli al drone, la prima volta planando forse in modo un po’ troppo radente, vicino ai surfisti, tant’è che uno di loro, arrabbiandosi, provò ad abbatterci lanciandoci la sua tavola, che comunque era legata alla sua caviglia, quindi con un gesto del tutto inutile; la seconda volta ci spingemmo un po’ troppo lontano, perdendo il contatto con il velivolo, il quale attivò il rientro automatico, senza tenere conto che il percorso lineare di ritorno passava attraverso una pineta, il quale, fortunosamente, si concluse senza troppi intralci, salvo qualche ramo spezzato.
Il sole ormai si era nascosto dietro l’orizzonte, così ci ritirammo. Visto che eravamo in vena di far danni, tornammo al campeggio per preparare la cena e, nel mettere l’acqua a bollire per preparare una pastasciutta, rischiai di essere travolto da una fiammata di due metri, causata da una fuga di gas del fornelletto.
Anche questa volta tutto andò per il meglio, ce la cavammo con un bello spavento.
Decidemmo che era il momento di bere qualcosa, per festeggiare la nostra fortuna e sdrammatizzare il momento, così ci recammo in città, verso il bottle shop più vicino; con nostra grande sorpresa, quella sera era in corso una festa, che potrebbe essere descritta come una grande sagra di paese.
C’era musica dal vivo, circensi, trampolieri, nani, gente travestita e spettacoli di luci e fuoco, i bambini correvano felici e gli adulti amoreggiavano come adolescenti, travolti dalla frivolezza del momento, ci calammo in questa inaspettata vitalità, la attraversammo saltellando, ci rifornimmo di vino e rientrammo verso il nostro van, bevemmo e ci addormentammo.
Fieri di essere sopravvissuti un altro giorno, l’indomani ci concedemmo una colazione sulla spiaggia, con pancake confezionati e marmellata; non di certo un pasto luculliano, ma uno degli insegnamenti più radicali del vivere on the road sta nel trovare gioie inaspettate e insegnamenti nascosti dietro a eventi che normalmente sembrano privi di significato.
È sicuramente vero che non stavamo facendo un pasto da grand hotel, ma già solo il fatto di farlo seduti in spiaggia, osservando il mare, con un bel sole mattutino a scaldarci, faceva acquistare alla gommosità di quei pancake un sapore di alta pasticceria.
A questo poi si va ad aggiungere una considerazione di non poco conto, infatti il nostro pellegrinaggio sin dall’inizio era stato dettato dall’abbassare l’asticella, una piccola rivoluzione in controcorrente con l’attualità, dove il coefficiente di realizzazione, e quindi felicità, va di pari passo con il numero degli oggetti posseduti.
Questo viaggio per noi fu, infatti, un buon punto di partenza per provare concretamente l’inutilità del superfluo, per comprendere radicalmente quanto ogni oggetto abbia un proprio valore e quanto ogni eccedenza appesantisca il viaggio.
Dovendo vivere in poco più di 2 metri quadri, si cerca di limare ogni eccesso, al fine di valorizzare ogni centimetro del poco spazio in cui ci si muove, la quantità si rivela ingombrante nel senso fisico del termine; allo stesso tempo anche da un punto di vista più filosofico, quei pochi oggetti che rimangono, assumono tutto il loro valore, che si riassume nel concetto di utilità. Tutto ciò che non lo è, non serve, a prescindere dal prezzo, dall’estetica, dal feticismo che suscita.
La prima volta che ci accorgemmo di questo, fu quando riducemmo il nostro guardaroba ai minimi termini e portammo, alle poste, le nostre cianfrusaglie e gli abiti di troppo; rimanemmo solo con uno zaino a testa.
Era la prima avvisaglia di consapevolezza di quanto pesano sulle nostre decisioni, sugli umori e sulle nostre aspettative gli oggetti di cui ci circondiamo.
D’altronde chiunque abbia mai fatto un trasloco, sa perfettamente a cosa ci riferiamo, di quante scatole servano per imballare le nostre esistenze; capita infatti spesso che in queste situazioni vengano riempiti sacchi su sacchi di cose da buttare, che magari prima rimanevano ferme in un angolo a prendere la polvere, immobili, ma che invece in quel momento in cui vengono riesumati, per partecipare alla migrazione dei soprammobili, vengono resuscitati nella loro inutilità e diventano immondizia.
Immondizia che va a rimpinzare il grembo saturo delle discariche, come se fossero delle immense soffitte, dove finisce tutto quello che per capriccio, per moda, per colmare una sensazione di vuoto, abbiamo acquisito senza un reale valore aggiunto per le nostre vite, in un ciclo continuo di vero e proprio consumismo, quello becero, quello che fa male sì all’ambiente, ma soprattutto alle nostre anime.
Perché è così che nascondiamo la vera natura dei nostri demoni, dei nostri dubbi, delle insicurezze e delle nostre paure, colmando, con un muro di cianfrusaglie, il vuoto che ci separa da essi, ma solo momentaneamente, perché, nonostante questo, esso rimane e ritorna, dopo quel breve periodo di incanto in cui ci siamo rifugiati, nell’adorazione del feticcio del momento.
Noi questo viaggio lo stavamo facendo con l’intenzione di seguire i nostri sogni, trovare la nostra identità, con una spinta di esistenziale arricchimento e ora ne avevamo la certezza: tutto questo sarebbe partito dall’essenziale.
Renato.
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