L’ amore ai tempi del COVID-19, viaggio in Italia.
- Renato | Michela
- 6 set 2020
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 5 gen 2021
E così arrivammo ad agosto entrambi disoccupati, con pochi euro in tasca e la voglia di evadere. Il mondo intorno era in subbuglio: è l’ anno del COVID-19, del lockdown, delle mascherine, delle rivolte per George Floyd, delle proteste ad Hong Kong, degli incendi in Australia, della crisi USA- Iran, dello spettro di una nuova crisi mondiale e della faida tra Bugo e Morgan a Sanremo.
Il mondo sembrava voler crollare da un momento all’altro e con lui anche noi, che nel nostro piccolo avevamo dovuto affrontare la nostra di crisi, fatta di vicende personali per le quali non staremo qui a spendere parole, perché in questo periodo nessuno ha bisogno di altre tragedie. Abbiamo tutti bisogno di un po’ di Amore, di cose belle, semplici e positive. Quindi è stata quasi una decisione forzata dagli eventi, vista la difficoltà nel varcare i confini nazionali, quella di esplorare un po’ il nostro Bel Paese, l’Italia; come noi, molti altri quell’ estate si sono sparpagliati in lungo e in largo, per andare a scoprire tutti i tesori che la nostra terra ha da offrire.

Così abbiamo fatto anche noi: abbiamo aperto la mappa, abbiamo segnato tutte le destinazioni che volevamo visitare e abbiamo tracciato una rotta che ci permettesse di scovare il maggior numero di meraviglie in meno di due settimane. Perchè i nostri occhi e le nostre menti avevano bisogno di fare una scorpacciata di bellezza, per evitare di crollare definitivamente.
Nel nostro itinerario abbiamo dormito in 5 letti diversi nel giro di 10 giorni, abbiamo visitato 5 regioni, macinando più di 2000 km tra andata e ritorno, il tutto spendendo all’incirca 300€ a testa tra viaggio e pernottamenti; perché come già detto, eravamo entrambi disoccupati, con pochi spicci in tasca e non eravamo riusciti ad ottenere il Bonus Vacanze, che il nostro governo con enorme generosità e confusione aveva messo a disposizione.

Così siamo partiti il giorno 4 agosto, abbiamo fatto il pieno alla nostra alfa 147, rigorosamente a GPL, perché come già detto, dovevamo risparmiare quanto più possibile, e abbiamo preso l’Autostrada in direzione Toscana.
Dopo un pit stop per salutare la parte della mia famiglia che abita nella provincia di Pisa, raggiungemmo il Grossetano nel pomeriggio, dove ad aspettarci c’è la nostra prima bandierina, conficcata sulle mitologiche terme libere di Saturnia. Nel mentre che stavamo aspettando che il nostro ospite sbrigasse le sue commissioni, per venire a darci il benvenuto nella sua abitazione, nel paesino di Triana, che sarebbe stato il nostro primo giaciglio per quella notte, andammo a fare un sopralluogo alle piscine naturali che caratterizzano il centro termale, ma ci saremmo bagnati nelle sue acque solfuree solo il giorno dopo.

Tornammo indietro e conoscemmo finalmente Luciano, il padrone di casa, che fin da subito ci colpì per la sua genuinità e semplicità. La sua cascina dominava la collina sulla quale era stata costruita, probabilmente qualche secolo fa, e tutto intorno veniva incorniciata da un panorama bucolico e mozzafiato. Luciano è un pastore, vive di quello che la terra gli offre, guida un gregge di modeste dimensioni, circuendolo a bordo della sua Vespa rossa, con l’aiuto dei suoi due cani e offre una sistemazione ai viaggiatori che passano da quelle parti. La sera cucinammo io e Michela una pasta all’amatriciana, mentre lui rimetteva le sue pecore al sicuro dai lupi, che pattugliano la zona, e ci facemmo una bella chiacchierata, sorseggiando del vino contadino che producono su quelle stesse colline, fu un momento impagabile.
Il giorno dopo ci svegliammo di buona lena e raggiungemmo le terme di Saturnia, che, nonostante fosse presto, era già affollata di gente.

(foto egregiamente photoshoppata da Michela, in realtà era una tonnara di comparse)
Una leggenda vuole che queste terme siano il prodotto di uno sfogo del Dio Saturno, padre di Giove, che, incazzato per l’indole bellica e litigiosa degli uomini, scagliò un fulmine verso la terra, che creò una voragine dalla quale sgorgò l’acqua tiepida e magica di Saturnia, dove chi si immergeva acquisiva saggezza e consapevolezza. Noi ci siamo fatti un bel bagno nel dubbio e ci siamo anche cosparsi dei fanghi presenti naturalmente nelle vasche.
Ci vestimmo con ancora il puzzo di zolfo sulla pelle, quella stessa sera avremmo dormito in Umbria, a Le Ficulle, nelle vicinanze di Orvieto, ma prima avevamo un intero pomeriggio da concederci per esplorare un po’ le magnifiche campagne toscane, così decidemmo di puntare verso la val d’Orcia, patrimonio dell’umanità per paesaggi, gastronomia, storia e culla del brunello di Montalcino. È proprio in questo magnifico borgo che ci fermammo per un pranzo a base di pappardelle al ragù di cinghiale, tartare di Chianina e una bottiglia di quell’ottimo vino rosso che fa parte delle eccellenze italiane.

Sazi e ebbri ci alzammo e passeggiammo per le vie di quel suggestivo paesello, fatto di ciottoli e scalinate fino a raggiungere il posto dove avevamo parcheggiato la macchina. Ci rimettemmo a bordo e planammo, seguendo la sinuosa strada che serpeggiava tra campi di grano e vigneti, fino a raggiungere l’abbazia di sant’ Antimio, non tanto per la sua importanza artistica, come esempio di architettura romanico-toscana, né per la sua valenza religiosa che la lega all’ordine Benedettino, bensì per il suo Omphalos: ovvero l’ombelico del mondo, centro ideale e punto d’incontro tra il mondo inferiore e quello superiore, che la storia identifica proprio nel pozzo cisterna dell’abbazia, situato nel chiostro e recintato per non far avvicinare i turisti. Quindi noi avevamo fatto tutta quella strada per poi non poterci nemmeno affacciare e bisbigliare i nostri sogni dentro il pozzo, o forse no.

Infatti approfittando della distrazione generale e dell’ assenza di controlli, scavalcammo e andammo ad affacciarci sull’ombelico del mondo, fino a quando la commessa della farmacia monastica non uscì a sgridarci e ci fece tornare tra i ranghi dei bravi turisti. Comunque sia avevamo avuto ciò che cercavamo, complice anche il Brunello, che ci aveva dato una spinta di coraggio, nel prendere le diciture dei cartelli più come un consiglio che come un obbligo.
Così felici riprendemmo la nostra strada e raggiungemmo l’Umbria, dove ci aspettava la nostra seconda Host, Angela, una dolcissima signora che ci accolse nella sua casetta d’altri tempi, con alti soffitti dalle volta a crociera (cosa che apprezzammo tantissimo), incastonata nel borghetto di Ficulle. La sera, anche se eravamo abbastanza stanchi per la faticosa giornata, raggiungemmo dei nostri amici in uno dei posti più belli che abbiamo visitato in questo viaggio, Narni.
Purtroppo giungemmo che la notte era già scesa e non potemmo gustarci la vista mozzafiato delle rovine dell’immenso ponte romano e delle fiabesche cascate, che caratterizzano il borgo, che prende dal fiume Nera, che in arcaico Naar stava a significare “acqua che scorre” o “sorgente di vita”, così ci inerpicammo fino alla porta medievale che fa da ingresso al borgo, per questa volta, perché la prossima passeremo dall’armadio, visto che è proprio questo il luogo in cui è ambientata l’epopea di C.S. Lewis “le cronache di Narnia”, antico nome di questo posto sospeso tra fantasia e realtà. Cenammo e passeggiammo per le mulattiere di Narni, completamente immersi in un suggestivo dipinto medievale, ma non potemmo fermarci a lungo, il giorno dopo altre grandi avventure ci stavano aspettando.

Erano anni che io e Michela eravamo a conoscenza dell’esistenza di un luogo magico e onirico ubicato nei pressi di Terni, un posto che eravamo destinati a visitare fin dal nostro primo appuntamento, quando eravamo andati a visitare una mostra temporanea dedicata al grande artista olandese Escher, la cui labirintica architettura fu tra le fonti di ispirazione dell’architetto milanese Tomaso Buzzi, quando progettò la sua teatrale città ideale nella tenuta de La Scarzuola, un ex convento francescano che acquistò e trasformò negli anni ‘50, per avere un luogo dove rifugiarsi dalla mondanità e dai salotti importanti, spogliarsi, tornare bambino e lasciare liberi i suoi sogni.
Parlare di questo posto è un sentiero impervio, come sottolineava Marco Solari, custode di questa perla esoterica ternana, al quale tocca l’ingrato compito di sgusciare la conchiglia che la cela, ma che riesce a immedesimarsi perfettamente nello spirito del posto, quasi come ne fosse posseduto, indossando una maschera giullaresca perfetta per il ruolo che La Scarzuola ha voluto per lui: metà Cerbero, metà Virgilio. A lui va il grande onore di proteggere dal degrado turistico questo angolo magico.
Perchè questo non è un posto dove si può trovare san Francesco, che qui si narra abbia levitato per la prima volta e abbia compiuto uno dei suoi primi miracoli, facendo sgorgare una fonte sacra dalle foglie della scarza, da cui appunto il nome “La Scarzuola”; non è nemmeno un luogo in cui trovare l’architettura eclettica e surrealista su cui si posano le sue mura e non è tanto meno un posto dove poter fare una gita di famiglia di domenica pomeriggio.
Non è nulla di tutto questo, pur essendolo, perché appena varcato il portone, l’immanenza lascia il posto alla trascendenza, il rumore cessa e diventa frequenza, melodia, armonia, dodecafonia, il senso orario ferma le sue lancette e riparte nel senso opposto, il giorno e la notte danzano e ne nasce un sogno ad occhi aperti, lucido, difficile da digerire; si viene proiettati in una spirale fibonacciana, che converge nel punto omega, dove il tutto diventa Uno, ivi compreso chi si lascia trasportare dalle vibrazioni, che scrollano le fronde dei cipressi che torreggiano tutti intorno. Qui non c’è tempo e non c’è spazio, perché è la lemniscata a governare il mondo del reale, l’iperuranio platonico che parla chiaramente, bisbigliando nelle orecchie di chi sa ascoltare:”andrà tutto bene, non c’è nulla da sapere, bisogna solamente ricordare”. Per chi cerca uno spiraglio di luce, la propria ottava superiore, una visita a La Scarzuola è doverosa, non aggiungeremo altro su ciò che abbiamo visto, perché non si può descrivere.
Uscimmo da quel portone che tutti gli altri visitatori erano già andati via, una lacrima bagnava di commozione la guancia di Michela, io mi sentivo come se fossi appena atterrato da un viaggio nello spazio, ci sedemmo in auto, in silenzio, aspettammo qualche minuto, poi partimmo per andare a visitare il bosco sacro, popolato dai mostri di Bomarzo. Durante tutto il viaggio rimanemmo in silenzio a contemplare una strana sensazione maieutica, che era calata sulle nostre coscienze. Quando davanti a noi comparve l’ingresso del parco dei mostri.

Entrammo nella selva che non eravamo propriamente nel mezzo del cammin di nostra vita, da un punto di vista anagrafico, ma come Dante dovette affrontare le sue fiere, per iniziare il suo percorso, allo stesso modo noi ci incamminavamo sfidando i giganteschi mostri di pietra che popolano questo bosco misterioso; raffigurazioni enigmatiche ed ermetiche che incutono stupore e timore, ma che in qualche modo ci salvano da ciò che di male c’è in noi e nel mondo, perché noi siamo i nostri stessi mostri e prima o poi dovremo affrontare questa tremenda realtà, al momento giusto.
Una delle più affascinanti attrazioni di questo immenso giardino, per il quale ci vogliono più o meno 2 ore per visitarlo doverosamente, è la casa pendente, una costruzione edificata di proposito sopra un masso sporgente, alta due piani, talmente storta da dover inclinare la testa per ridonargli una linearità accettabile secondo i canoni a cui tutti siamo abituati. Ma ci eravamo ormai piacevolmente rassegnati al fatto che avremmo dovuto guardare il mondo fuori dai suoi schemi, per capirlo realmente.

Così ammirammo questa costruzione e salimmo al primo piano per entrarci dentro e ne fummo infantilmente divertiti, tutto sembrava storto e precario, soprattutto noi ci sentivamo inclinati rispetto alla casa, anziché il contrario. Eravamo noi ospiti delle sue stanze e lei stava già lì da cinque secoli, quindi dove stava la stonatura? Probabilmente da nessuna parte, così come nell’universo, tutto è regolare per com’è, non per come lo vediamo.
Proseguimmo nella nostra passeggiata per i sentieri del parco, tra i vari Giano Bifronte, sfingi, Pegaso, tartarughe giganti, Ercole, draghi, Nettuno, Giove, Venere, come se stessimo percorrendo le pagine di un libro mitologico fatto di pietra e alberi, finché non ci ritrovammo davanti all’uscita. Senza nemmeno accorgercene avevamo finito la nostra visita.
Qualche ora dopo la pace e l’infinità delle campagne umbre, con la loro magia, la loro storia, la loro immensa quiete erano sparite, ma non era sparito quello che ci avevano donato, che rimarrà per sempre parte di noi, o forse noi saremo per sempre parte di queste terre e di tutte le esperienze che abbiamo avuto la fortuna di vivere.
Quando tutto questo scomparve e il mio cervello stava riacquistando una forma terrena e concreta, stavo guidando in centro a Napoli, soverchiato dal caos e dal traffico, dal rumore dei clacson e dagli esseri umani, così pieni di vita, mi sentivo felice, sentivo l’amore; anche se eravamo ai tempi del COVID-19 il nostro viaggio continuava.
Renato.
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