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On the road #1, si chiude un portone, si apre una portiera.

Aggiornamento: 5 gen 2021

L’ esperienza di Bali fu davvero intensa e proficua, al nostro ritorno ci aspettava ancora un mese di lavoro prima della partenza e in quel lasso di tempo ci saremmo preparati al meglio per la nuova avventura che ci eravamo prefissati.





Già prima della nostra piccola vacanza, avevamo trovato un furgoncino già attrezzato, il quale sarebbe stato il nostro rifugio per il viaggio che da lì a poco avremmo dovuto affrontare; di certo non era stato un buon affare, perché non ci era costato poco, soprattutto in proporzione al chilometraggio che portava nel cofano, ma entrambi eravamo caduti in una strana attrazione feticista nel vederlo; alla fine cedemmo e lo acquistammo da due ragazzi spagnoli che abitavano a Bondi beach. Così lo portammo via, nel giro di pochi minuti -sorprendente la rapidità di questo tipo di transizioni nel sistema burocratico australiano,- sperimentando così anche per la prima volta la temuta guida a destra, che, a dirla tutta, spiazza sul primo momento, per via delle rotonde e le precedenze invertite, spazi e misure da ricalcolare e la zelante attitudine dei locali per regole del codice stradale, a cui noi italiani siamo poco avvezzi, ma nel giro di pochi incroci la situazione già sembrava farsi meno complicata del previsto -se non consideriamo il continuo scambiare la levetta delle frecce con quella del tergicristalli-.

Così lo parcheggiammo sotto casa, nell’ attesa della partenza. La rotta era segnata, avremmo risalito la costa est fino allo stato del Queensland in cerca di un lavoro nelle farm, eventualità che non era prevista nei nostri piani, ma che ci sembrava davvero un peccato non sfruttare, per aprirci le porte ad un eventuale secondo Workin Holiday Visa; d’altronde le nostre aspettative si erano davvero ampliate, iniziando a vivere con gli stipendi che percepivamo e non ci sarebbe affatto dispiaciuto un anno bonus, per mettere via altri risparmi, per viaggiare nuovamente.

La realtà che ci stavamo costruendo attorno ci calzava come un completo fatto su misura, iniziavamo a rendercene conto ancora prima delle migliaia di chilometri che ci aspettavano, stavamo diventando dei viaggiatori compulsivi.

Ad ogni modo, come stavo dicendo, ritornammo dall’ Indonesia carichi e rigenerati, pervasi di positività e fiducia, quando scoprimmo che entrambi eravamo rimasti senza lavoro, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno e come la tradizione delle nostre vite ci impone.

Nella nostra vacanza non ci eravamo fatti mancare nulla e ora eravamo con i soldi contati, per giunta rimanere a Sydney sarebbe stato troppo oneroso, quindi accelerammo i preparativi e in una settimana eravamo seduti sui sedili del nostro Toyota Hiace del 2001, con i suoi 400 mila Km segnati sul cruscotto, quel poco dei nostri averi, quelli che non avevamo spedito in Italia -stipati ordinatamente negli antri dei bancali, che fungevano da struttura del letto, posizionato nel cassone posteriore- qualche provvista, un po’ di erba, le nostre attrezzature per documentare l’esperienza, la mia tavola da surf, intonsa, -trovata per strada e riparata alla sperindio- incastrata alla meglio e la voglia di partire che divampava come un fuoco, riarso dalle ceneri dello sconforto iniziale, avendo visto un’ altra volta i nostri programmi scoppiare come bolle di sapone.

Portammo il furgone per un controllo preventivo e ottenemmo il benestare del meccanico per le sue condizioni, a dir suo non ci avrebbe tradito, ma ci consigliò di tenere sott’ occhio i livelli dell’ olio e di non premere troppo sull’acceleratore. Ci fidammo, non potevamo fare altrimenti infondo.

Quindi salutammo tutti gli amici che a Sydney ci eravamo fatti, con la promessa di rimanere in contatto e di incontrarci nuovamente in giro per il mondo, ci facemmo il segno della croce e dormimmo la prima notte sulla nuova casa a quattro ruote, parcheggiati davanti alla spiaggia di Maroubra, con il rumore delle onde in sottofondo e un po’ di ansia a disturbarci il sonno, era il 16 giugno ed eravamo finalmente "on the road".

Per la prima volta nella nostra vita eravamo senza un tetto sopra la testa, una sensazione davvero strana, quasi di disagio, la perdita dell’ultimo punto fisso, come se avessimo salpato l’ancora da un porto sicuro per prendere il largo, verso l’orizzonte; da lì in poi le sorprese, le scoperte, i momenti di sconforto e di meraviglia, ci aspettavano lungo quella lingua di asfalto, la quale si snodava infinita nei giorni che sarebbero seguiti, da lì a chissà quando.

Il fatto di non avere più quattro mura tra le quali rifugiarsi, il non poter più chiudere la porta, per lasciare fuori il mondo, con il suo rumore e i suoi imbrogli, per crogiolarsi nella propria intimità e nella comodità di un appartamento, potrebbe sembrare una sfida insormontabile a pensarci, ma nel viverla, e nel riviverla, ora che sto trasformando quei ricordi in parole, è soltanto un altro salto nel vuoto, un’ angoscia iniziale, con la testa piena di preoccupazioni e incertezze, ma poi, una volta fatto il primo passo, tutto rimane alle spalle e rimangono solo libertà e adrenalina, ormai si è in volo, con il vento che sbatte contro la faccia e il sorriso sulle labbra, mentre un braccio penzola fuori dal finestrino, lo sguardo è puntato sulla strada e insieme si cantano le canzoni che avrebbero fatto da colonna sonora al nostro vagabondare.

Canzoni che cantavamo a squarciagola, perché alla fine non ci importava più di niente, ormai eravamo in gioco, pronti a goderci l’esperienza; volevamo assaporarla in ogni sua sfumatura e ci sentivamo carichi, perché nulla più ci tratteneva; ora che avevamo levato l’ancora, fluttuavamo verso posti che non avevamo mai visto, i quali si rivelavano, come apparizioni dall’altra parte del parabrezza, che, come se fosse un televisore, raccontava storie di città e persone, che nel giro di pochi istanti diventavano piccole forme, che si allontanavano e svanivano negli specchietti retrovisori, andando avanti così, fino alla prossima destinazione.

Questa sarebbe stata la nostra vita per le settimane a seguire, ma per ora ancora non lo sapevamo, anche se a guardarci negli occhi, nel cercare la complicità l’un con l’altra, sapevamo che sarebbe stato memorabile.

Ci svegliammo il giorno dopo che ancora le onde di Maroubra ruggivano contro gli scogli e la rena, domate dai surfisti del primo mattino; la prima notte era passata, il timore di dormire per strada lo lasciammo in quel parcheggio, ci lavammo nei bagni pubblici e, dopo una colazione al volo, ci mettevamo in marcia per lasciare Sydney e il suo traffico.

Nell’orizzontalità che questo viaggio ci poneva davanti, con le immense distanze che ci separavano dal traguardo, la verticalità, che dà, in conclusione, una dimensione al tutto, riusciamo ora a vederla nel rapporto che si venne a creare con noi stessi e con l’altro, come coppia.

Da una parte il marciare per ore ininterrottamente lasciava spazio a lunghi silenzi di riflessione, dove entrambi avemmo modo di confrontarci con noi stessi, immergerci nei pensieri e nei resoconti delle nostre vite, nelle nostre speranze per il futuro e nel goderci il momento, in piena coscienza e senza sovrastrutture, finalmente stavamo diventando trasparenti; dall’altra parte lunghe conversazioni, per confrontarci sui pensieri che ci saltavano in mente, o semplicemente per alleggerirci la noia, che dopo ore di marcia si faceva largo, sfociando in stiracchiamenti e fumo di sigarette.

In fondo è stata una prova per entrambi, come individui separati e uniti nello stesso momento, a volte assenti, a volte stretti come i Koala ai tronchi di eucalipto.

Così, quando naufragavamo nei nostri viaggi mentali, che procedevano di pari passo con quello reale, molte volte capitava di finire verso casa, in Italia, perché nomadi come eravamo, sembrava un qualcosa di ancora più estraneo alla nostra quotidianità.

Un piacevole ponte, che accorciava quelle distanze, oltre che averci tenuto compagnia, è stato senz’altro lo Zoo di 105.

Infatti avevamo scaricato su un’ applicazione tutte le registrazioni delle puntate e talvolta ce ne sparavamo anche 3 o 4 di fila, facendoci grasse risate, ascoltando i ragazzi di via Turati nei loro vaneggiamenti, ma allo stesso tempo era un modo per tenerci aggiornati su ciò che accadeva in Italia e nel mondo, dato che in mezzo ai loro mille svarioni, parlano volentieri di temi di attualità, spesso con punti di vista più che condivisibili e razionali; cosa che a noi tornava molto utile, visto che molte volte attraversavamo tratti sperduti tra una città e l’altra, dove la connessione internet non prendeva -e di conseguenza eravamo in qualche modo tagliati fuori-, potevamo in questo modo farci anche noi un’idea di ciò che stava accadendo lontano dal sogno in cui ci eravamo calati, come speleologi in una grotta, a cercare i cristalli più colorati, nascosti dietro la grigia e dura roccia della monotonia della vita, che ora profumava più che mai di avventura.

Anche se, in tutta sincerità, di colorato c’era ben poco in questa prima parte di viaggio, perché la pioggia ci seguiva come le nuvole fantozziane, giacché la nostra partenza coincideva con l’inizio dell’inverno australe; quindi il maltempo spesso ci impediva diverse libertà di esplorazione o le rendeva più ardue rispetto a se ci fosse stato bel tempo. Capitava spesso, infatti, che ci rintanassimo, sdraiati sul letto, a guardare un film o a sonnecchiare coccolati dalla pioggia, che, gocciolando, ci trasportava con le sue morbide melodie.

Quindi stavamo lì, sperando che andando verso nord, avvicinandoci all’ equatore, le temperature si sarebbero alzate, il sole sarebbe apparso in cielo e noi avremmo potuto levarci i giubbotti, inforcare gli occhiali da sole e finalmente imparare a surfare, in mari meno tumultuosi e giornate meno ventose.

Era iniziata così la nostra vita sulla strada, il primo giorno non esagerammo e ci fermammo a Port Stephens dopo 200 chilometri, perché la nostra prima tappa era Anna Bay, poco distante, con la sua enorme spiaggia-deserto e i cammelli che ciondolano scoordinati sul bagnasciuga.

Comunque eravamo felici, eravamo liberi; eravamo noi, il furgone, la strada e un’ Australia che ogni giorno ci teneva sospesi su un filo teso tra i nostri piani e i suoi imprevisti, un po’ alla volta ci metteva alla prova, ci spingeva a crescere, ci preparava a diventare adulti, ci presentava a noi stessi e ci insegnava a vivere.


Renato.


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