Pandemia, collegamenti ironici e fili di seta rossi.
- Renato | Michela
- 13 mar 2020
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 5 gen 2021
Tutto questo viaggiare, tutte queste parole, tutto questo tempo. In questi giorni senza confini, dove idee, persone, cose e anche virus, circolano con una facilità e una velocità mai vista prima, in tutta la storia del genere umano.

Perchè anche la storia è un viaggio, infondo tutto lo è, e il genere umano sembra sia rimasto indietro in questa corsa, sta perdendo la sua gara con il progresso, mai come oggi questo sembra evidente.
Mai come oggi tutto è stato così collegato, nell’epoca dove la connessione ha cambiato il mondo; tutto si muove, corre, vola, si sposta, ci avvicina e riduce il tempo che occorre per arrivare ovunque e da chiunque.
È ironico che, al culmine di questo periodo, dove lo spazio non esiste più, dove le possibilità sono infinite e tutto è a portata di mano, ci sia l’obbligo di mantenere le distanze gli uni dagli altri, in un mondo che sembra immobile, con le strade vuote e la gente spaventata.
Le forze dell’ordine pattugliano strade semi deserte, i bar, i ristoranti e la maggior parte dei negozi hanno le saracinesche abbassate, sembra la fine del Mondo.
Tutti hanno questo strano brivido addosso, perché sembra veramente che lo sia, magari è proprio così,una minaccia invisibile ci rincorre e ci terrorizza, come un pazzo omicida, facendo vacillare il sistema, che si regge su un filo di seta finissimo.
E dico seta non a caso, perché, proprio come questo pregiato tessuto, è da Oriente che proviene tutto questo; dal gigante del Sol Levante, dalla Cina. Dove l’industria affonda le sue radici più spregevoli, dove la natura si sente più minacciata, dove il cielo è così inquinato, che in certe parti, non si scorge più il Sole, proprio nella terra dove sorge, veramente ironico.
Si vocifera che questa malattia, di cui non scriverò il nome di proposito, sia stato trasmesso da un pipistrello all’essere umano, secondo un processo denominato Spillover. Da animale a uomo, un altro collegamento, questa volta nocivo. Uno dei pochi casi in cui il contatto va a discapito della specie dominante.
Come dice David Quammen, scrittore e giornalista americano, in un intervista rilasciata a Wired: “Non possiamo uscire da questa situazione, da questo dilemma: siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo pianeta e solo su questo. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo. Siamo troppi, 7,7 miliardi di persone, e consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus. Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse”; è ironico che, da quando questo virus ha obbligato le popolazioni a creare zone di quarantena, i tassi di inquinamento siano calati drasticamente ed è ancora più ironico che esca da questo discorso meno assassino, di quanto non lo sia l’assassinato.
Questa ironia crea un altro bizzarro collegamento. Sembra quasi di essere in uno di quei romanzi polizieschi intricatissimi, dove l’investigatore tesse ragnatele di fili, per far coincidere tutti gli indizi appesi su una parete caotica e indecifrabile. Fili ironici di seta a quanto pare.
Comunque sia, per trovare la puntina a cui appendere nuovamente la nostra cordicella, occorre tornare al 1992, quando il brillante comico statunitense George Carlin in un monologo illuminante, a proposito del problema dell’inquinamento, profetizzava: “ Penso che il pianeta ci veda come una moderata minaccia, qualcosa di cui liberarsi. E sono sicuro che il pianeta si difenderà, come farebbe un grande organismo, come un alveare o una colonia di formiche. Il Pianeta penserà a qualcosa. Vediamo… vediamo… I virus. I virus potrebbero andare bene. Sembrano vulnerabili ai virus”.
È proprio a questo punto che l’investigatore che risiede in ognuno di noi dovrebbe fermarsi, accendersi una sigaretta, allontanarsi di due passi dalla parete e osservare il quadro nel suo complesso.
Questo perché nello stesso anno in cui Carlin pronunciava le sue amare battute, iniziava la guerra degli statunitensi contro il clima, quando il presidente George W. Bush senior dichiarava, al vertice sul clima di Rio de Janeiro: “il tenore di vita degli americani non è negoziabile”, in merito alle dichiarazioni degli scienziati, su quella che era la prospettiva ambientale, dichiarata quasi 30 anni fa.
A questo punto, agli occhi sconcertati dell’ investigatore,il caso si rivela per quello che è realmente, un suicidio.
Il caso è chiuso, o almeno così sembra. Perchè comunque il problema rimane: persone continuano a perdere la vita, gli ospedali sono ancora sotto assedio, l’economia del Paese sta subendo gravi danni, le persone non sanno cosa fare e l’incertezza regna. L’indagine sembra aver trovato un colpevole, ma il problema persiste, per il momento.
La storia non finisce qui, perché non finirà così, non sarà la fine dell’umanità, almeno per ora.
Presto il mondo uscirà da questa quarantena, o trovando una cura o col passare del periodo dell’influenza. Ma cosa ci rimarrà dopo? Che cosa avremo imparato?
Osserviamo, come ha fatto l’investigatore, e seguiamo i fili ironici di seta che ci guidano nella nostra indagine.
Tutto tornerà come prima o ci ritroveremo, come alla fine di una guerra, a dover ripartire da capo?
A pensarci bene non è che prima di questa pandemia le cose sembrassero andare nella direzione migliore possibile, anzi, sembrava di starsene seduti su una macchina scagliata a tutta velocità verso un burrone mortale. Molti erano i segnali che ci avvisavano di saltar giù, prima che fosse troppo tardi:
scioglimento dei ghiacci, incendi devastanti, la corsa alla conquista di Marte, minacce di guerre, genocidi, la diffusione delle macchine elettriche, le grandi migrazioni di intere popolazioni, il ritorno ai nazionalismi ottusi e dannosi, lefragilità finanziarie, i tumori, la virtualizzazione della vita, come fuga da una realtà decadente, l’ invecchiamento e l’impoverimentodella popolazione, la mancanza di lavoro, il calo delle nascite, le patologie nate dallo stress di una vita non sostenibile e la lista potrebbe svilupparsi all’infinito.
Questo virus ci ha dato due indizi che convergono nella stessa direzione, ha colpito le fasce più anziane della popolazione e ha chiuso tutti in casa, come a volerci dire: state lì e procreate, servono nuove generazioni, come se volesse proiettarci verso il futuro. E liberatevi di un passato dove avete sbagliato.
Ovviamente questo messaggio dell’universo è vaporoso e dettato da una lettura altamente controbattibile.
Ma a pensarci bene,sono proprio le nuove leve che stanno rimettendo al centro del dibattito le problematiche legate al clima, non quelle passate, o quelle che dominano allo stato attuale, basti pensare a Greta Thumberg e al movimento “Friday for future”, sono queste le generazioni che hanno a cuore il problema, perché sono quelle che si ritroveranno con i danni maggiori se non prendono in mano la situazione.
In secondo luogo, questo disastro ha colpito la società nel fulcro, dove poggia tutto il suo peso, nell’ economia, che pare uscirà disastrata da tutto questo.
Così facendo, ha messo in luce tutto il marcio che ha causato questo disastro, i governi che si stanno mostrando per la loro scarsa preparazione e stanno pagando decenni di sperperi e ingiustizie, sta dando il colpo di grazia a una crisi che rischia di mandare in rovina tutto il Paese.
Sta demolendo tutto, lasciando macerie. A meno che non ci sia un colpo di fortuna che risolvi tutto.
Equesta potrebbe non essere la migliore delle prospettive.
Forse abbiamo bisogno di un nuovo inizio, per fare in modo che le redini passino nelle nostre mani, per dare a noi, ora, la possibilità di fare la nostra parte, per costruire un mondo nuovo, un futuro nuovo; troppo diverso da quello che ha vissuto, finora, chi ci ha preceduto, La storia ci insegna che è dalle macerie che si riparte a costruire qualcosa di nuovo.
È a questo punto che l’investigatore si spaventa, pensando di star passando dalla parte dell’assassino, perché più lo osserva, più prova empatia per lui e inizia a parteggiare per lui, trovandosi a pensare al suo stesso modo. Scuote la testa e si stropiccia gli occhi, questo lavoro lo sta consumando, ci si sta immergendo pericolosamente, forse si sta facendo prendere troppo dal caso, si sta perdendo in vaneggiamenti, in indizi e sospetti che sono solo nella sua testa, forse dovrebbe prendersi una vacanza e riordinare le idee.
Forse dovrebbe riconsegnare il distintivo e non interessarsi più di tutto questo, perché il crimine non si fermerà mai, lui non sarà mai soddisfatto e tutto questo non ha senso.
Ma infondo ha bisogno di tutto questo, di sperare in qualcosa di migliore, specialmente in un periodo dove ogni filo ironico di seta rossa lo porta sempre più lontano da quella luce, che è la speranza in un futuro migliore. Così si lascia cadere all’indietro sulla poltrona, china il collo all’indietro, fa un sospiro e canta il ritornello diBob Dylan, in “A ballad of a Thin man”:
“Perchè qui sta succedendo qualcosa, ma non sai cosa sia. Vero, mister Jones?”.
Renato.
Comments