Bangkok, la ricchezza del terzo mondo
- Renato | Michela
- 9 dic 2018
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 10 dic 2018
La capitale della Thailandia è un algoritmo molto difficile da decodificare, specialmente dopo averla vissuta per poche ore. Ma certi sguardi, certe sensazioni, dicono molto più di quanto ci potevamo immaginare.

Arriviamo a Suvarnabhumi quando il sole timidamente si affacciava per la sua alba quotidiana, oltre la tristemente nota coltre di smog che ingabbia Bangkok, donandole quella filigrana tipica delle foto della New York degli anni ’20. La prima sensazione che ci piombò addosso, usciti dal fresco dell' air bus di ultima generazione sul quale viaggiavamo, fu un’umidità appiccicaticcia e sporca che si appoggiava sulla pelle, con la delicatezza dei maglioni di lana grezza, che quando si era bambini provocavano spasmi pruriginosi e crisi d’ira claustrofobiche.
Dunque siamo stati trasportati con il pullman dalla pista d’atterraggio fin dentro il ventre dell’imponente aeroporto, una gigantesca giungla di vetro, acciaio, cemento e vele biancastre.
Lo scalo che ci aspettava era all’incirca di dodici ore, di conseguenza avremmo dovuto calibrare i nostri tempi con una discreta precisione, per non perderci quei pochi ma fondamentali passaggi endogeni alle prassi aeroportuali, tra cui visti, iter d’immigrazione, recupero e deposito bagagli, oltre che gli spostamenti fino alla città e la pianificazione del percorso più veloce e completo possibile per visitare la realtà metropolitana.
Una volta appurate queste faccende, ci siamo buttati a capofitto in questa nostra maratona intensiva, senza non pochi ostacoli di natura organizzativa.
Sia Suvarnabhumi che Bangkok infatti sono realtà immense, degne, a dire di molti, a Singapore e Hong-Kong, ma, a differenza di queste ultime, gestite con totale incapacità.
Quindi siamo partiti da questo, un qualcosa di talmente grande da sfuggire al controllo di chi non ha risorse e capacità per esserne all’altezza, un po’ come il nostro tentativo di cogliere l’essenza della ‘città degli angeli’ in queste poche e scarne righe.
Così decidiamo di affidarci a questo caos regnante, per fluttuarci all'interno, lasciandoci trascinare come fanno le meduse, e non imparanoiarci troppo per i nostri bagagli, che a dire delle hostess della Thai Airlines (compagnia di tutto rispetto), avremmo trovato automaticamente imbarcati sul nostro volo di coincidenza; dribblammo con destrezza i pullman e i van, la cui partenza non è ben chiara nelle tempistiche; ed è qui che recuperammo una piacevole comparsa del nostro viaggetto, un personaggio della Rhône francese, tale Mahmoud, distinto nella sua canutezza, alto e rassicurante, tanto da apparirci saggio e affidabile, anziché pensarlo come un qualsiasi turista sessuale pensionato, che nei mesi freddi si reca a svernare in questi paradisi esotici dell’indocina; comunque sia quello che teneva in testa era un magnifico cappello, bianco come le nuvole del paradiso e i suoi modi erano decisamente eleganti.
Fu così che unimmo le forze e decidemmo di dividerci un taxi per raggiungere il cuore della locomotiva Thailandese.
Lungo l’autostrada semideserta venimmo a sapere dal nostro guidatore che, guarda caso, quel giorno era il compleanno del sovrano più longevo della terra, ben 6 anni più vetusto della Regina Elisabetta II d’Inghilterra -soprannominata nei salotti più importanti di Cambridge ‘Chella ca nun schiatta chiu’-, il padre di tutti i thailandesi, Re Rama IX, ovvero Bhumibol Adulyadej, una quasi divinità per gli abitanti del posto.
Tant’ è che per via di questa ricorrenza le strade erano sgombre e la gente quasi del tutto sobria; questi i dettami dell’evento: tutti a vedere il vecchietto ormai verso la fine dei suoi giorni e nessuno deve essere molesto.
Percorrendo l’asfalto che ci separava da Khaosan Road, la nostra destinazione, intorno a noi si stagliavano architetture gigantesche, gloriose e monumentali, ma che lasciavano un retrogusto decadente e povero, come se fossero fatte di cartone decorato, le quali dominavano la periferia attorno al cuore pulsante della metropoli.
Finalmente arrivammo e ci congedammo dai nostri compagni di viaggio, per continuare a piedi la nostra breve esplorazione, in un clima surreale, dove la fiumara popolare di corpi in giallo vestiti, che si dirigeva alla volta del Rattanakosin, sede del grande Palazzo Reale, era tale da non vederne mai la fine.
Purtroppo a causa dell’evento non siamo riusciti ad entrare in alcun tempio, tanto meno nel sacro tempio di Wat Phra Kaew, ma siamo comunque contenti di averlo potuto contemplare dal di fuori, con il dovuto rispetto.
Tuttavia, tra lo smog, la sporcizia che ricopre strade, case e persone, i venditori di bombole a gas che contro ogni norma di sicurezza, consegnano queste potenziali bombe, imbracciandole come angurie, alla guida dei loro traballanti motorini, i grovigli dei cavi dell’alta tensione, penzolanti e accavallati come forchettate di spaghetti, ai bordi dei balconi e tutte le caratteristiche che rendono questa bellissima Metropoli ben lontana dal potersi competere il titolo di capitale dell’Indocina, con le sue avanguardistiche rivali, c’è un’esperienza che io, come credo anche Michela, ci porteremo cuciti come una pezza, sulla giacca firmata della nostra anima occidentale:
mentre camminavamo lungo Khaosan Road, sono stato avvicinato allegramente da un trasandato e palesemente borraccio individuo, il classico filo più basso e sfilacciato del tessuto dei sobborghi più infimi, che mi ha preso la mano per stringermela, dove io portavo il mio orologio (il quale sicuramente ha per me un valore più affettivo che reale, ma che rimane pur sempre un oggetto).
Senza pensarci, trasportato da un misto di paura e sbruffoneria (che mi vergogno di ammettere), lo scanso con una battuta sul suo stato di ebbrezza neanche troppo simpatica, il giorno del compleanno del Re, e continuo per la mia strada.
Michela giustamente mi ha sgridato per il mio comportamento, riportandomi al fatto che nessuno avrebbe alzato un dito per me, se quello avesse tirato fuori un coltello e mi avesse steso lì per strada, nel cuore del terzo mondo, dove la violenza è all'ordine del giorno, anche se in questa esperienza abbiamo avuto la fortuna di non vederne.
La sua ramanzina era saggia, ma il punto della questione era un altro.
La conseguenza che mi ha fatto più male è stato lo sguardo afflitto di quell’uomo, consapevole della sua colpa, insultato da uno straniero, in uno dei giorni più importanti del suo paese.
Mi sono sentito un vero stronzo e in quel momento in me qualcosa si è mosso, nel profondo del mio spirito; ho iniziato a parlare umilmente con i passanti che mi fermavano anche per un breve scambio di battute, a ringraziare ogni essere vivente che mi circondava, con il cuore aperto e a sorridere a chi incrociavo lungo la mia via, il quale a sua volta ricambiava benevolmente il mio saluto.
Ho rivisto i suoi occhi in ogni individuo che stava lì col capo chinato a salutare il proprio sovrano, oppure in ogni bella ragazza costretta a convivere col pregiudizio legato al suo sesso, in una delle capitali del turismo sessuale mondiale e in ogni altro lavoratore, costretto ad abbassarsi quotidianamente per portare il pane a tavola e ho provato per ognuno di loro un profondo rispetto.
A Bangkok, nel sudiciume più fetido e inquinato, qui solamente, per una volta, sono riuscito a lavare la mia coscienza, dalla sporca arroganza occidentale.
ขอบคุณ
Renato
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