Bali. l’acqua trova sempre la sua strada.
- Renato | Michela
- 25 giu 2019
- Tempo di lettura: 8 min
Un motorino vecchio modello della Honda a 4 tempi arranca, inerpicandosi su strade impervie, circondato da un groviglio di palme, interrotte da verdi risaie a terrazza; sullo sfondo, la cima del vulcano Agung, si erge tra le nuvole senza mostrare la sua cima e l’ aria profuma di incensi, frangipani e roghi di sterpaglie miste a plastica bruciata.
I bambini, che lo incrociano per la sua via, salutano e ridono, inseguendo la sua andatura goffa e forzata, mentre, passando per i piccoli villaggi disseminati lungo il percorso, si intravedono le botteghe dei maestri artigiani del legno, del vetro e della pietra, susseguirsi alternandosi ai numerosissimi templi induisti dell’ isola.

Bali infatti è l’ultima roccaforte di questa antica religione, nel mare islamico dove sorge l’arcipelago riunito sotto la bandiera indonesiana. Solo nella zona nord ovest, in prossimità dell’isola di Giava, i canti del Muezzin si levano dai minareti, chiamando i fedeli a raccolta nelle ore di preghiera, per il resto l’isola è disseminata di statue Vishnu, Shiva e Acintya, dio supremo del panteon Hindu Dharma, rappresentazione del tutto in uno, la cui raffigurazione è un trono vuoto, ma pieno del tutto allo stesso tempo.
Ai suoi piedi offerte quotidiane di incensi, fiori e caramelle, avvolti in foglie di palma, chiamate Canang Sari, vengono lasciate dagli abitanti dell’isola, per ingraziarsi il volere degli dei, dei demoni e della buona sorte.
Su quel motorino invece ci siamo io e Michela, carichi della nostra attrezzatura, per catturare le bellezze che andavamo a visitare, ed intenti ad esplorare questo angolo di paradiso, in ogni suo anfratto, incuranti del clima piovoso imprevedibile dei tropici, che poco prima ti avvolge col suo calore e poi improvvisamente ti rovescia addosso secchiate d’acqua e vento.
Contrariamente alle nostre supposizioni, attraversare Bali non si è rivelato rapido come ci aspettavamo; complici le poche strade che la collegano, il traffico e la velocità, che va mantenuta bassa, per essere pronti a schivare polli, persone e i cani randagi che affollano le vie dei centri abitati e che attraversano la carreggiata imprevedibilmente.
Abbiamo speso qui sette giorni, più due nella più primitiva Gili Meno -che tratteremo in un articolo a parte- e l’ultimo invece a Nusa Penida, Poco a largo della costa Sud Est della perla delle Isole della Sonda, nota a chi bazzica su instagram per il suo famoso promontorio immerso nel blu, dove il mar ti Timor incontra l’immensità dell’Oceano Indiano.
Qui nuotano pacifici tra gli esseri più fantastici che abitano gli oceani, come pesci mola mola, squali balena e mante che possono raggiungere quasi i 7 metri di larghezza; purtroppo siamo capitati nella stagione sbagliata e comunque il tempo a nostra disposizione non sarebbe stato sufficiente per poterci permettere questo sogno ad occhi aperti.
Come tuttavia non lo è stato per quasi tutta la permanenza sull’ Isola di Bali, dal momento che la parte nord, dove sono le spiagge più isolate e l’acqua più cristallina, era fuori portata per i nostri piani; quindi ci siamo dovuti “accontentare” di un tuffo veloce tra i cavalloni delle spiagge per surfisti di Canggu, nella zona ovest; posto di grande attrattiva per i visitatori più giovani, ma sicuramente non famose per la loro bellezza.
Nota sicuramente opaca quella del turismo di massa, che tuttavia sostiene l’economia dell’isola come fonte primaria, ma che ingorga i siti di maggiore interesse, spesso in modo irrispettoso e ignorante, facendo dubitare alcuni isolani, quando per esempio parlano di cittadine come Kuta o Seminyak, trasformatesi in villaggi turistici, carichi di negozi di marche d’importazione, degli effetti che questo isterico interesse sorto negli ultimi anni per Bali possa avere sul lungo termine.
Come ci confidava un giorno il buon Ketut, che da poco ha lasciato la sua attività di scultore del legno per aprire un ristorante, affacciato sul suggestivo scenario delle Terrazze di Riso di Tegalalang: il Warung Rice Terrace.
Vorremmo proprio partire da questo posto sospeso tra realtà e fantasia, per raccontare il nostro mistico viaggio, in questa terra tanto selvaggia, quanto spirituale.
Il nostro intento è di evitare di non valorizzare a dovere posti magari più famosi, come le porte del Paradiso di Lempuyang, Uluwatu o anche Ulun Danu Beratan Bedugul, che seppur di grande bellezza, non ci hanno lasciato niente di sostanzioso, a causa della fretta con cui li abbiamo visitati, dall’eccessiva affluenza di persone, che ha rubato la loro magica atmosfera, o della stanchezza causata dalla lunghezza del viaggio per raggiungerli.
L’amicizia con Ketut, comunque stavamo dicendo, unito alla vista unica che si ammira dalle sue terrazze, all’ottimo succo di mango che vende nel suo ristorante e alle delizie tipiche che prepara la sua cucina, ci hanno portato svariate volte a sederci ai suoi tavoli, per pianificare le nostre giornate, goderci il sole del mattino, che picchiava sugli steli di riso, che crescono in tutta la vallata, e scambiare con lui e sua moglie due chiacchiere leggere, ma sempre piacevoli. Inoltre va sottolineato che il metodo usato per l'irrigazione, denominato "subak", ha radici millenarie e per questo fa parte del patrimonio Unesco.
Quando i nostri viaggi non partivano da qui, lo facevano invece dalla terrazza del nostro albergo, Umah Hoshi Hotel, poco più a Nord, nel villaggio di Sebatu, nel cuore dell’ isola e della giungla equatoriale, finora il miglior alloggio della nostra vita, senza doverci pensare neanche troppo.
L’impressione, che ci ha accompagnato per tutta la vacanza, è stata quella che le persone qui -per quanto vogliano costantemente provare a venderti qualcosa, vedendo nel turista, o comunque nel viaggiatore, una fonte di guadagno e quindi di sopravvivenza- sono conservatrici di un segreto superiore, nascosto dietro i sorrisi e la pazienza, una vibrazione calma e ancestrale, che si muove nell’atmosfera come i fumi degli incensi e ha il profumo agrodolce delle fragranze del terzo mondo, ribolle profonda come il magma del vulcano e cade elegante, come l’acqua delle cascate incastonate nelle rocce, le cui gocce rimbalzano sulle felci e sulle palme che fanno loro da cornice, danzando come le balinesi nei giorni di festa, citando il maestro Battiato.
Questo tesoro l’abbiamo scovato in Ketut, ma anche in Mega e Diasih, le receptionist del nostro Hotel, e così in tutti gli isolani con cui abbiamo scambiato attimi di vita.
Una forza che fluisce come una corrente, si appoggia sulle cose e sugli esseri viventi, creando e plasmando il seme animista, che diversifica l’induismo balinese da quello tradizionale, e accompagna gli spiriti di chi vuole ascoltarla; compito che nella mitologia Hindu spetta al Dio Hanuman, il maestro che aiuta l’anima individuale a scoprire il divino, che nell’ iconografia induista è rappresentato come una scimmia.
Ed è proprio con questi nostri stretti condiscendenti che il viaggio del nostro spirito verso la rinascita è iniziato, a ridosso del sesto mese del nostro girovagare per il mondo: nella Monkey forest di Ubud, un santuario che si addentra tra liane, corsi d’acqua e boscaglia, dove sorgono bellissimi templi di cui le scimmie sono abitanti e custodi.
Sono animali estremamente difficili da prevedere, curiose e dispettose, tuttavia estremamente interessanti, nel carattere e nell’espressione degli occhi, pienamente umana. Uno dei consigli, che ci sono stati dati, è stato prorpio quello di non incrociare e fissare i loro sguardi, perché reagiscono a quell’affronto come ad un segno di sfida; ma da quello che abbiamo potuto constatare, sono rari i casi in cui sono un pericolo, la maggior parte delle volte si avvicinano e si arrampicano sui visitatori senza creare problemi, salvo qualche furtarello dagli zaini lasciati aperti o di occhiali da sole.
Passeggiare per questo posto senza tempo, circondati da questi primati che mostravano la via verso il cuore del santuario, è stato come camminare tra le pagine del libro della giungla e ci ha riportati alla nostra condizione primordiale, quando anche noi eravamo poco più che scimmie, semplici animali che riescono a eguagliare l’uomo, senza bisogno di proferire parola alcuna.
Così, trascinati dal richiamo della foresta, abbiamo deciso di fare visita ad un altro maestoso animale, che non avevamo mai avuto l’occasione di vedere da vicino, a cui è affiancato un altra divinità induista, Ganesha, simbolo di colui che ha scoperto la divinità in se stesso e di chi ha trovato l’equilibrio.
Ci siamo recati quindi a nord di Ubud, direzione: Elephant Safari Park; luogo dove 31 elefanti, strappati dalle catene di un campo di lavoro, vengono protetti e accuditi in un meraviglioso parco aperto al pubblico.
È possibile lavarli, farci il bagno assieme oppure cavalcarli nella foresta circostante, ma per rispetto, dopo aver saputo che non amano avere passeggeri sulla schiena, abbiamo deciso di limitarci a lavarne uno, di nome Ardila.
Con un' innaffiata e un colpo di spazzola, lavavamo la sua pelle robusta e rugosa, liberandola dalla polvere, mentre un po’ pulivamo anche noi stessi, trovando il nostro baricentro nell’universo.
L’elefante è imponente, riflessivo e paziente. La sua intelligenza è celebre e fa passare la sua stazza e potenza in secondo piano; di fronte ad esso ci si sente piccoli, ma allo stesso tempo per niente intimiditi, la sua gentilezza è palese e fin dal primo contatto ti fa sentire al sicuro, come se per qualche strana connessione riuscisse a capirti.
La scimmia e l’elefante ci avevano condotto fino a qui, avevamo incontrato la divinità, dove l’acqua bagna il tempio della foresta delle scimmie, l’avevamo trovato dentro di noi, lavando l’elefante con la stessa acqua. Ora era venuto il momento di immergere noi stessi in quell’acqua, per congiungerci con la pienezza dell'infinito, nell’esperienza più mistica di questo periodo balinese: il Pura Tirta Empul, "tempio dell' acqua della primavera santa", dove avviene la rinascita.
La sorgente di questo tempio balneabile è sacra, si dice abbia capacità curative e purificanti e ad oggi ancora non si sa da dove nasca.
Il nostro rituale è iniziato spogliandoci dei nostri vestiti e indossando il Sarong, tipico telo da cerimonia, spesso decorato con minuziose fantasie impresse col metodo batik, da portare a mo’ di pareo.
Il Sole stava ormai tramontando e l’aria iniziava a farsi fresca, questo fu un bene perché i turisti si erano nel frattempo dileguati. Così abbiamo potuto celebrare il rituale per intero, iniziando, seduti a gambe incrociate, tenendo in grembo le nostre offerte alle divinità, con gli incensi accesi e puntati in direzione dell’universo. Abbiamo iniziato a meditare, sforzandoci di liberare la mente da tutti i pensieri e cercando il nostro mantra.
Quando ci siamo sentiti pronti, ci siamo alzati e siamo andati a poggiare le offerte sull’altare di fronte alle due vasche dentro le quali ci saremmo dovuti immergere, sul cui lato opposto si affacciavano 24 fontane che, con forme che ricordano i seni della madre terra, riversavano acqua ininterrottamente in queste piscine, dove nuotavano centinaia di carpe Koi. Il rituale consisteva nel camminare immersi nella vasca, passando di fontana in fontana, bagnarsi tre volte la faccia, fare tre sorsate e lavarsi la testa, ripetendo questa sequenza di gesti per 10 diverse fontane, saltando quelle dedicate al ricordo dei defunti, il tutto recitando il proprio mantra o le proprie preghiere.
Al primo contatto con l’acqua abbiamo sentito la sua freddezza, ma, man mano che ci siamo immersi per avanzare verso le sorgenti, avvertivamo che un calore da dentro iniziava a prendere il sopravvento, facendo scomparire la sensazione di freschezza che stavamo provando fino a quel momento.
Abbiamo completato il percorso e alla fine ci sentivamo commossi, rinati, grandi, lucidi, puliti, e una serie di altre sensazioni che potrebbero continuare all’infinito. Poi siamo tornati al punto di meditazione e abbiamo assaporato l'immensità dell'universo dentro e intorno a noi, ancora bagnati dell'acqua sacra, che ci proteggeva dal freddo della sera, che nel frattempo era sopraggiunta.
Non sappiamo se in quelle vasche ci sia davvero qualcosa di magico, come in tutta Bali del resto. Ma una cosa l’abbiamo capita e può essere riassunta in una frase, che mi è venuta in mente, mentre meditavo prima del rito e che poi è diventato il mantra che ho recitato per tutta la durata dello stesso, ovvero: “L’ acqua trova sempre la sua strada”.
E così noi, che guardiamo verso il nostro futuro, senza sapere cosa ci aspetterà e a cosa siamo destinati, dobbiamo seguire l’insegnamento dell’acqua.
Solo così saremo anche noi gocce dell' uno che fa parte dell' immenso oceano del tutto e, forse, se saremo bravi abbastanza, troveremo il nostro posto nel mondo.
Renato.
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